Tiziana Benucci, sostenitrice della lista Europa in Comune nel prossimo Congresso di +Europa

Dalla Brexit all’elezione di Trump, dalle elezioni politiche in Italia, in Ungheria, in Danimarca, in Slovacchia, in Austria, nei Paesi Bassi fino alla Turchia e al Brasile, è ormai tutto chiaro: nel mondo, in Europa e in Italia la sfida politica non è più tra Repubblicani e Democratici, Laburisti e Conservatori, socialdemocratici e popolari né genericamente tra destra e sinistra o centrodestra e centrosinistra e neanche tra laici e religiosi  ma tra liberali, democratici, tolleranti, liberisti, globalisti, ecologisti, difensori della scienza, garantisti, europeisti, atlantisti, multilateralisti, da un lato; illiberali, nazionalisti, sovranisti monetari, statalisti, protezionisti, corporativisti, assistenzialisti, antiscientisti, giustizialisti, antieuropei putiniani, non di rado anche apertamente xenofobi e omofobi, dall’altro.  Abbiamo semplificato in società aperta vs società chiusa, Europa vs nazionalismi, Occidente vs Eurasia ma come decliniamo le nostre differenze ideali o ideologiche (perché nel campo della società aperta, concetto popperiano, rientrano molti più che i liberali in senso stretto) in un programma, in una proposta politica? Non eravamo e non siamo pronti a differenziarci su una visione di sistema, perché fino a pochissimi anni fa nessuno che avesse un minimo di credibilità e di numeri aveva mai messo in dubbio e persino attaccato il sistema della democrazia liberale.
Se è vero, come è vero, che in questo momento salvare l’Italia, il primo Paese tra i fondatori della CEE-UE e il più popoloso dell’Eurozona ad avere un governo populista e nazionalista, divenuto il laboratorio politico dei Bannon e dei Dugin, significa salvare l’Europa, dobbiamo partire innanzitutto dalla Penisola.
Da tanti mesi noi di +Europa e più in generale di tutto il vasto panorama dei liberaldemocratici, democraticoliberali, riformatori e riformisti italiani continuiamo ad eludere una domanda fondamentale.  Dal momento in cui, ben dieci mesi fa, gli elettori hanno posto con forza al centro del tavolo della politica le tre istanze su cui i populisti e i nazionalisti hanno vinto, cosa abbiamo elaborato per rispondere dal nostro punto di vista? Nulla o quasi.
Continuiamo a ripeterci che “quelli là” hanno vinto con il reddito di cittadinanza e con la flat tax e allora è tremendamente urgente che, invece di ripetere due no secchi e senza appello, si elabori una risposta di buon senso, ragionevole, praticabile per la finanza pubblica e accettabile per noi e per quegli elettori, che hanno semplicemente chiesto uno strumento di welfare per i meno abbienti e una riduzione fiscale per la classe media, gli uni e l’altra massacrati da una crisi economica durata otto se non dieci anni.

Perché arroccarsi intorno alla mera difesa degli esecutivi precedenti, alla vulgata della “ripresina”, i cui effetti sono largamente insufficienti, tanto nella “percezione” comune quanto ad un’analisi obiettiva dei fatti e dei dati?
La terza questione, pur indotta dalla propaganda vincente, pur offerta in pasto all’opinione pubblica come capro espiatorio, tanto quanto l’Europa, è stata prima raccolta e poi posta con forza dagli elettori: l’immigrazione. Il mero lamento umanitario, pur giusto, non è una risposta percepita come credibile e non ha effetti concreti sul dibattito nel Paese. Possiamo aggiungere un “purtroppo” ma la sostanza non cambia.
Non possiamo, non dobbiamo continuare ad apparire come minoranza di privilegiati, come élite, come establishment, come salottini rinchiusi in bolle lontane dal Paese reale. E non possiamo neanche aspettare che fra un anno, dieci o venti ci si riconosca che avevamo ragione noi. Non ce lo possiamo permettere. La crisi della democrazia liberale non ce lo permette.
Cominciamo da qui, da queste istanze poste con forza dagli elettori, per renderci credibili o anche solo considerabili ed ascoltabili. Ma prima poniamoci noi le domande giuste.
Qual è la risposta, la proposta, dei liberaldemocratici e democraticoliberali, riformatori e riformisti, alla richiesta di uno strumento di welfare universale, in un’Italia in cui la forbice tra ricchi e poveri è ampia quanto nei Paesi in via di sviluppo?
Qual è la risposta-proposta per un abbassamento della pressione fiscale, in un Paese in cui le persone oneste sono strangolate dal fisco?
Quale per un governo ordinato ed umano del fenomeno migratorio, che comunque ha dei costi, almeno nell’immediato?
Dare risposte allo stomaco per riattivare il cervello degli Italiani. Questo mi pare essere il punto.
Il rischio enorme che stiamo correndo è che, in assenza di nostre risposte credibili e ragionevoli, il fallimento delle promesse al vento dei populisti e nazionalisti, che impegnano il presente nella mistificazione della realtà mentre l’Italia si avvia verso la recessione, porterà presto ad un futuro ancor peggiore del populismo e del nazionalismo: la distruzione definitiva della democrazie liberale, che si consumerà tra aperti conflitti di classe, nel tribalismo di quei blocchi sociali che decenni di politica corporativista, clientelare, dirigista e assistenzialista hanno formato, alimentato e poi consegnato su un piatto d’argento ai nazional-populisti.
Più Europa ha la forza per imporre queste domande nell’assenza di un dibattito politico e culturale, in un’opposizione paralizzata innanzitutto da vecchie e superate logiche di appartenenza?
Più Europa sa raccogliere la sfida che quel variegato movimento di opinione, democratico, liberale, europeista e civico, che cresce e si organizza nelle città, nel Paese e in Europa, sta lanciando a queste opposizioni asfittiche, immobili, introflesse e senza futuro? Penso al Centro Motore di Marco Taradash, che per primo ha saputo leggere il presente e vedere il futuro, nell’ottica dello scontro in atto tra concezioni di sistema, all’appello civico e federalista europeo lanciato da Sandro Gozi, che proprio in questi giorni e in queste ore raccoglie numerose adesioni, a quei cittadini che guardano con grande interesse l’attivismo politico di Carlo Calenda, a quei comitati civici renziani che forse non decolleranno ma che hanno molti nuclei sparsi nel Paese, a Volt, primo partito paneuropeo e di chiara impronta liberaldemocratica, a Italia in Comune di Pizzarotti, con la sua rete di sindaci, amministratori e cittadini, al mondo ecologista, ai tanti movimenti e associazioni liberali e liberaldemocratici che stanno sorgendo un po’ ovunque, con aspirazioni nazionali o locali, all’associazionismo di quei cattolici liberali che in varie recenti battaglie si sono dimostrati alleati affidabili e preziosi e anche ai mal di pancia di quei settori moderati del centrodestra non più disposti alla politica cerchiobottista che sta uccidendo la tradizione culturale e l’idea stessa di destra liberale.
+Europa deve uscire dalle logiche correntizie e spartitorie per aprirsi, perché, se non saremo aperti al nostro interno, non saremo neanche aperti al dialogo e al tavolo con altri soggetti. Non è con l’isolamento identitario e autoreferenziale che possiamo pensare di guidare l’opposizione nel Paese, una nuova opposizione che sia aggiornata ai tempi e credibile. E dobbiamo porre alla base del dibattito interno, per poterla poi porre ai naturali alleati, l’idea di uno shock competitivo: se insieme alle tre risposte non elaboreremo un piano per un rilancio dell’economia, ugualmente non saremo credibili, perché aumentare la spesa e ridurre le tasse si può solo se aumenta il gettito fiscale complessivo. E quest’ultimo, in regime di riduzione fiscale e di aumento della spesa per welfare, può crescere solo se il Pil sale. Basta spiegarlo con parole semplici e comunicarlo in modo efficace: non si spendono i soldi che non si hanno, se non si vuole finire molto male. Lo sa benissimo anche la famosa casalinga di Voghera.
Per fare tutto ciò c’è bisogno della pannelliana “unione laica delle forze”, altrimenti +Europa sarà solo ciò che lo stesso Pannella giustamente stigmatizzava, “l’unione delle forze laiche”, cioè un recintino neanche ideologico, viste le diverse anime, ma di meri slogan, se non addirittura un piccolo patto di potere.
Confrontiamoci con tutti i ragionevoli. Ce ne sono tanti, nelle città, in Italia, in Europa. E diamo noi per primi, insieme a chi si sta già muovendo, l’esempio della ragionevolezza.
Se non sapremo raccogliere questa sfida, convocare un tavolo dei volenterosi e dei lungimiranti, e farci portatori tanto dell’idea di un piano articolato e complessivo per uno shock competitivo per il Paese quanto dell’esigenza e dell’urgenza di fornire quelle risposte-proposte agli elettori che hanno preferito “quelli là”, saremo solo un cartello elettorale, uno dei tanti cespugli e cespuglietti all’ombra del vecchio pachiderma PD, pronti per morire al primo sternuto interno od esterno. E non avremo neanche provato a salvare la democrazia liberale in Italia e in Europa.
La ragionevolezza ci può salvare.

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