Lo strano attacco del Recovery alla trasparenza amministrativa
di Dino Rinoldi, Nicoletta Parisi
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza critica la trasparenza cui le varie branche della Pubblica amministrazione sono tenute
Non sapendo cosa meglio dire sull’annosa questione del contrasto (preventivo) alla corruzione, il nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), inviato dal Governo alla Commissione europea, si mette a criticare la trasparenza cui le varie branche della Pubblica amministrazione, al servizio dei cittadini, sono tenute. Vogliamo allora una Pa opaca? Scarsamente professionale? Poco volonterosa? Propensa, a questo punto sì, a favorire la corruzione?
Nel Pnrr la parola «corruzione» appare 17 volte. La si trova anzitutto quando il Piano rammenta raccomandazioni dell’Unione europea che ci chiedono di «migliorare l’efficacia della lotta contro la corruzione riformando le norme procedurali al fine di ridurre la durata dei processi penali». E tuttavia è proprio il Piano stesso a vantarsi di «una legislazione anticorruzione… (con) elementi di forza riconosciuti da osservatori internazionali».
Si ripete quando il Piano prevede l’istituzione presso il ministero dell’Economia e delle Finanze di «un apposito Organismo di audit (…) per proteggere gli interessi finanziari dell’Unione e più specificamente per prevenire, identificare, segnalare e correggere casi di frode, corruzione o conflitto di interesse».
La parola viene sistematicamente ripetuta nel capitolo del Piano intitolato «Le riforme abilitanti: semplificazione e concorrenza», dove una paginetta (p.69) smilza e nemmeno completa si occupa di «Abrogazione e revisione di norme che alimentano la corruzione».
Si possono manifestare sul punto serie preoccupazioni.
Occorre infatti ricordare quel Dispositivo europeo per la ripresa e la resilienza (Recovery Fund) corrispondente alla gran parte – 672,5 miliardi di euro – del Next Generation Eu di 750 miliardi alla cui attuazione sono rivolti, per l’ambito di rispettiva competenza, i diversi Piani nazionali degli Stati membri dell’Unione. Nel regolamento che lo disciplina si individuano i parametri di efficacia che il Pnrr globalmente, nonché ogni singolo progetto in esso contenuto, devono raggiungere per dimostrarne l’impatto duraturo sullo Stato membro interessato, e conseguentemente nell’intera Ue, contemplando misure coerenti e concrete per l’attuazione di riforme e di progetti di investimento pubblico.
Strettamente connessa è la situazione che, pur non riguardando esclusivamente il nostro Paese, in tema di corruzione certo deve essere attentamente presidiata in Italia. Le norme europee richiedono infatti che le modalità proposte dallo Stato membro per l’attuazione del Pnrr siano tali da prevenire, individuare e contrastare anche sul piano penale la corruzione, la frode e i conflitti di interessi nell’utilizzo dei fondi erogati, comprese le modalità volte a evitare la duplicazione dei finanziamenti da parte del “dispositivo” e di altri programmi dell’Unione. In Italia (come altrove) vi è in particolare la consapevolezza – maturata dalla prassi rilevata nel corso del primo anno di pandemia, ma ben presente a chi già in precedenza vigilava il mercato dei contratti pubblici – che non si debba abbassare la guardia a fronte del rischio di infiltrazioni criminose (organizzate e non) nell’uso dell’ingentissimo ammontare di risorse finanziarie impegnate nel fronteggiare i danni economici e sociali determinati dalla pandemia.
Il passaggio sopra menzionato del nostro Pnrr ha da questa prospettiva contenuti sorprendenti. Sorprendono le affermazioni generiche, vaghe e in controtendenza con quanto le valutazioni internazionali (apprezzate, come si accennava, dallo stesso Pnrr!) accreditano come un efficace antidoto alla cattiva amministrazione e alle condotte illegali: si tratta delle valutazioni formulate dal Greco (Group d’États contre la Corruption) del Consiglio d’Europa, dall’Ocse con la Convenzione sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali nelle operazioni economiche internazionali, dalle Nazioni Unite con la Convenzione contro la corruzione e, complessivamente, dalla stessa Ue. Il nostro Piano afferma che «occorre evitare che alcune norme nate per contrastare la corruzione impongano alle amministrazioni pubbliche e a soggetti privati di rilevanza pubblica oneri e adempimenti troppo pesanti»: ma al riguardo esemplificativamente si mettono nel mirino lo strumento della trasparenza amministrativa e i «ben tre tipi di accesso ai documenti e alle informazioni amministrative».
Per attuare questa riforma, definita «abilitante» ai fini della realizzazione del Piano, la medicina sarebbe quella di semplificare la disciplina contenuta nella “legge Severino” (l. n. 190/2012, Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella P.A.), nonché nei successivi due decreti: quello sulle inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni (d.lgs. n. 39/2013) e quello, appunto, sulla trasparenza amministrativa (d.lgs. n. 33/2013 come integrato dal d.lgs. n. 97/2016, il cosiddetto Freedom of Information Act italiano).
Insomma, par s’intenda dare fiato all’impostazione concettuale che ha accompagnato costantemente la vita dell’Autorità nazionale anticorruzione/Anac nei suoi primi sei anni di funzionamento, secondo la quale le misure di prevenzione della corruzione rappresentano un appesantimento burocratico da buttare. Non sembra si intenda valorizzarne l’applicazione sostanziale e professionale, non ridotta a mero adempimento formale, che sola contribuirebbe efficacemente a una (tanto auspicata) migliore organizzazione nell’esercizio della funzione pubblica e dunque, in definitiva, alla sua efficienza. Non si considera che i «ben tre tipi di accesso ai documenti» (l’accesso difensivo, quelli civico semplice nonché generalizzato) concorrono – da prospettive e con finalità assai differenti – a dare concretezza al diritto fondamentale del cittadino di conoscere per essere cittadino consapevole ed esercitare, appunto consapevolmente, i diritti e i doveri di sovranità che l’art. 1 della Costituzione gli riconosce.
Non si valuta che la tanto sbandierata digitalizzazione, accompagnata dall’auspicata interoperabilità delle varie banche dati pubbliche, dovrebbe facilitare le modalità di accesso da parte della cittadinanza ai pubblici documenti. Così oltretutto i cittadini non sarebbero più tenuti a presentare più volte una stessa informazione alla Pa.
Nel passaggio che sopra si ricordava il Pnrr afferma anche che è «necessario eliminare le duplicazioni e le interferenze tra diverse tipologie» di procedure (nel caso si parla delle ispezioni amministrative), le quali «da antidoti della corruzione sono divenute spesso occasione di corruzione». Anche qui, l’affermazione è semplicistica.
Piuttosto occorre rispondere alla domanda: come semplificare?
Ne parliamo in un prossimo articolo, ragionando sulle … complicazioni della semplificazione con particolar riguardo al Codice dei contratti pubblici del 2016, che secondo qualcuno sarebbe addirittura da «azzerare»! Del resto, in materia di «accelerazione e snellimento delle procedure» è appena stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto legge 31 maggio 2021, n. 77.