Una Tassa sull’innovazione che non risolve il problema dell’evasione delle grandi web company
Paolo Costanzo, candidato nella lista Europa in Comune nel prossimo Congresso di +Europa
La legge di bilancio 2019 ha disegnato una serie di interventi volti a garantire un reddito a chi si trovi in condizioni di disagio economico e a consentire la possibilità di richiedere la pensione da parte di chi ha raggiunto la cosiddetta quota 100 (ottenuta dalla somma di età e anzianità contributiva). Questi interventi, che hanno rappresentato il cuore della manovra, sono stati definiti in ipotesi di crescita del PIL pari all’1%, con un disavanzo pari al 2,04% e con una serie di disposizioni che: accrescono il gettito fiscale, stimano ipotesi di entrate da dismissioni e riducono alcune spese in misura significativa (ahimè anche l’istruzione) così come gli investimenti.
Al fine di accrescere il gettito fiscale, è stata introdotta anche la cosiddetta web tax (in realtà era già stata prevista nella legge di bilancio 2018 ma non era mai entrata in vigore a causa della mancata emanazione delle norme attuative). Il gettito fiscale previsto è pari a 150 milioni di Euro nel 2019 e 600 milioni di Euro per il 2020 e il 2021. L’intento del legislatore è quello di attrarre a tassazione i profitti dei giganti del web che spesso sfuggono dal sistema impositivo nazionale e, ancorché non sia stato espressamente richiamato nella legge di bilancio, riprende la struttura della proposta della Commissione Europea (2018/0073 – proposta per una Direttiva del Consiglio relativa al sistema comune d’imposta sui servizi digitali applicabile ai ricavi derivanti dalla fornitura di taluni servizi digitali). Ovviamente, causa “fame” di gettito i servizi digitali inclusi sono sostanzialmente la maggioranza. Le disposizioni della legge di bilancio si renderanno applicabili a seguito dell’emanazione del Decreto attuativo da parte del MEF (verosimilmente a partire dal mese di maggio 2019).
Vediamo a chi si applica la web tax: si applica a tutte le imprese che singolarmente o a livello di gruppo abbiano un fatturato non inferiore a 750 milione di euro con un ammontare dei ricavi derivanti dai servizi digitali, realizzati in Italia, superiore a Euro 5,5 Milioni.
Come noto l’e-commerce in Italia è in rapida espansione, rappresenta un canale di vendita alternativo a quello tradizionale, richiede un suo modello di business e specializzazioni diverse rispetto al canale fisico. Ai più può sembrare molto semplice ma in realtà, per comprenderne le complessità, sarebbe opportuno guardare il proprio smartphone, alla semplicità del suo utilizzo e allo stesso tempo immaginare la tecnologia che lo rende efficace e funzionante. Nell’ambito della grande distribuzione italiana, il volume di affari dell’e-commerce del 2018 ha raggiunto un valore di 1,1 miliardi di Euro con una crescita del 34% rispetto al 2017. Da un’indagine recentemente pubblicata da Mediobanca, si evince che il fatturato aggregato 2017 dei maggiori operatori della grande distribuzione alimentare italiana, è pari a circa 82 miliardi di Euro con un risultato, al netto delle imposte, pari ad Euro 1 miliardo circa che corrisponde all’1,3% del fatturato.
Visti questi numeri, che ovviamente comprendono sia le vendite on-line (in piccolissima parte ma in rapida espansione) e le vendite sul canale tradizionale, si può comprendere l’iniquità di una tale disposizione che colpisce il fatturato e non l’utile e che inviterà alcuni operatori economici ad abbandonare questo canale di vendita.
A questo punto ci si domanda: non poteva essere adottata una soluzione diversa visto che in questo modo non è detto che si riescano a colpire i grandi gruppi che eludono il fisco, ma sicuramente verranno penalizzati i gruppi che hanno sempre adempiuto ai propri obblighi tributari? Perché colpire indirettamente anche i cittadini che grazie all’e-commerce riescono a semplificare le proprie scelte di vita (si pensi agli anziani che in questo modo evitano il disagio della spesa)?
Probabilmente sì. Infatti, tutte le transazioni digitali avvengono attraverso la carta di credito e per tale motivo sono tracciabili. Si potrebbe ipotizzare una ritenuta operata dal gestore della carta di credito per ogni transazione. Tale ritenuta, diventerebbe un’imposta per i soggetti esteri che non intendono aprire una sede di affari in Italia e un acconto sulle imposte per i contribuenti che operano in Italia con una propria sede, propri dipendenti, ecc. Sarebbe difficilmente eludibile e non penalizzerebbe chi investe in innovazione e chi, grazie all’e-commerce, è riuscito ad esportare i propri prodotti all’estero.